PROSPETTIVE
IN SANTA GIULIANA

Perugia 12 -21 dicembre 2014 - 8 -22 gennaio 2015

LE GEOMETRIE DELLA STORIA

La mostra PROSPETTIVE IN SANTA GIULIANA di Maurizio Cancelli si compone di trenta opere di medie dimensioni, alcune di grandi misure e di una installazione m. 4X4, L’occhio nel flauto. La accoglie il grande spazio del complesso monumentale dell’ex monastero benedettino di Santa Giuliana a Perugia, un edificio imbevuto di una lunga storia e, negli ultimi due secoli, per le vicende politiche che hanno segnato quei tempi, oggetto di un continuo riuso: granaio, ospedale militare e ora scuola di lingue dell’esercito.
Resta un fondamentale esempio di architettura cistercense, suggerita da S. Bernardo da Clairvaux secondo le condizioni per l’ascesi, finalizzata alle visioni celesti. Semicelato nelle strutture di pietra rosa e travertino si dipana l’esoterismo dei maestri comacini, intervenuti nella costruzione. Lacerti di affreschi risparmiati dalla indifferenza o dal disprezzo di ideologie transitate su quei muri, istoriazioni di capitelli ancora pregne di fascino, le vicende della storia che accomunano una moltitudine di luoghi simili, trasmettono ancora il fasto religioso e culturale del sito e la sua sostanziale integrità.
Il leccio, un monumento sempreverde di 24 metri di chioma, staziona da tre secoli nel cortile a cui dà il nome, quasi un emblema, un logo vivente: c’è un “casuale” legame mistico tra l’albero e l’arte di colui che espone.
Le opere di Maurizio Cancelli hanno un carattere ben definito. Sono riconoscibili. La cifra stilistica è inequivoca. Il segno architettonico costruisce il soggetto principale: il fabbricato storico, reale o rivisitato, testimonianza di una civiltà, realizzato secondo un disegno perfetto; sullo sfondo la natura, i boschi, i monti, i prati.
C’è nella grafica il racconto della carcassa della storia, del suo endoscheletro, l’essenza, quella che è rimasta invariata nei millenni resistendo alle ingiurie della natura e degli uomini. Frutto di un disinteresse da parte della prima e di un’incomprensione da parte dei secondi, e che ha tuttavia stabilito collegamenti concettuali e culturali, allineando, così come le architetture si ordinano sulla superficie pittorica, il nostro passato flusso ininterrotto, fino all’oggi. La tensione principale di Cancelli è stabilita dal suo impegno nei confronti dell’ambiente, inteso come rapporto inscindibile tra uomo e natura. Non come oggetto di venerazione, tanto meno come moda, ma come un sentire profondo che viene da una lunga eredità famigliare. La custodia della natura è un obbligo etico imprescindibile. La pittura è lo strumento principe con cui, almeno per lui, la salvaguardia si fa possibile, è il faro che ne illumina la sostanza e diviene, seppur fragile, difesa dall’abbrutimento e dall’attacco. Il suo lavoro viene così assolutizzato ed è sgombro dalle scorie, dalla presenza degli individui con la loro contingenza.

Il suo curriculum è impressionante. Dal 1970 ad oggi decine di mostre tra personali e collettive che sarebbero notevoli per un comune artista, ma che risultano sorprendenti per chi affianca all’arte l’insegnamento a tempo pieno, la conduzione di un ristorante, un’azienda agricola e pastorale e, in passato, anche l’attività politica con battaglie per la difesa del territorio: del suo ambiente, Cancelli, di cui è eponimo, ma del creato in generale, vista la sua inclinazione quasi misticheggiante. Senza dire poi, non essendo questa la sede per dilungarvisi, del suo essere portatore del privilegio e della responsabilità del segno, guaritore.
In questa frase del comune amico Fabio Bettoni (Cancelli l’arte del gregge) c’è molto, non solo dell’uomo, dell’insegnante, dell’imprenditore, dell’appassionato alla natura, ma anche dell’artista: “… della sua pittura, di cui ammiro l’osmosi impareggiabile tra architetture classicistiche e paesaggi odierni, quasi un’eco di Pietro il Perugino, e il calore glaciale – mi si perdoni l’arditezza dell’espressione – che promana da cromie variamente modulate sul bianco, il celeste, il grigio e il verde. Maurizio mi sembra evocare la figura di uno sciamano, con le dovute differenze e specificità e scontando il fatto che stabilire somiglianze di tal genere è sempre un rischioso approssimarsi.”
Al fondo si rileva una delicata combinazione di tecnica sopraffina e ingenuità o meglio, incanto. I templi classici, le strutture murate gli ornamenti, sono risultato di un ricercato lavoro di prospettive, di gestione magistrale dello spazio e di un nitore compositivo lampante; le apparizioni di contorno, animali nobili e fieri, in posizioni improbabili quasi tratti da un universo onirico, sono retaggio di una condizione beatamente infantile, che, in realtà, è la proiezione semiinconscia (?) di un desiderio. Ci rintracci una reinterpretazione del capriccio del XVIII sec, le architetture di Canaletto o di Antonio Visentini di cui fa venire in mente vedute veneziane, quali i disegni per le incisioni: architetture fastose, con colonne e archi, pieni e vuoti che, armoniosamente, si incalzano reciprocamente e mostrano nella raffinatezza del tratto il compiacimento di esistere; con altre ragioni e altri sfondi, di L. Laurana (La città ideale per intenderci) o di M. Cornelis Escher, dove però l’inganno (illusione) prospettico/a è sostituito/a da quello/a temporale, grazie all’adozione di un diagramma di flusso, un algoritmo illustrato dagli edifici in sequenza. Sembra di poter cogliere una convinzione profonda, e cioè che l’arte, la sua arte sia una sorta di prosecuzione dell’atto della creazione che, tramite la parte migliore dell’uomo (pensiero più manualità), esprime la sua scoperta di euritmia nel mondo con uno dei suoi linguaggi più puri ed eleganti: quello matematico geometrico.

A ben vedere però la geometrizzazione è un pretesto, anzi una proiezione. L’ordine degli elaborati schemi ed assonometrie altro non è che la riproposizione della perfezione del bosco, lo spazio scandito dai tronchi – colonne, con l’arco che replica la curva della chioma dell’albero, i vuoti erbosi, pavimenti di tarsie marmoree riprodotte con un’accuratezza devota, quasi estenuante, la luce che veste il paesaggio, i colori delle stagioni; l’edificio isolato è l’albero colossale che si erge sulla radura, la quercia, il faggio alla cui ombra, nel lucus, si manifesta il numinoso. E l’ordine del bosco è l’ordine dell’universo, è palpabile metafora della necessità di tenere a freno la deriva catastrofica – in questo caso quella della civiltà occidentale, perché dei suoi emblemi si serve, ma il concetto è estensibile a tutto il pianeta – la palingenesi selvaggia del mondo verso il baratro dell’abbandono della natura come benefica, necessaria divinità. Il sacro. È un’idea che appartiene stabilmente al suo modo di essere e di esprimersi. Sacro inteso nella sua radice etimologica: ciò che è sancito, da una virtù superiore, un ambito diverso e valido rispetto al resto del cosmo. Sacra è per lui la natura e la continuità della tradizione.
Le tecniche esecutive evidenziano delle peculiarità. L’uso dei materiali: la matita e il pastello per le linee, con l’impianto disegnativo sulla cementite che garantisce un fondo candido su cui il segno si stampa netto, assoluto, categorico, per altro talvolta costitutivo dell’opera stessa; l’impasto bituminoso atro, che accoglie un pastello bianco. Oppure un tradizionale olio, in cui però è messo in mostra un tormentato passaggio cromatico, in ragione di una coincidenza tra pensiero e risultato. Un sistema rappresentativo decisamente originale per scelta stilistica, per linguaggio e per coerenza, anche in relazione al personaggio, fondato su strumenti “antichi”: riga, squadra, compasso, finalizzato ad una didattica rivolta alla scuola, ma più in generale alla civitas. La sua frenesia dell’esistenza si stempera nel rigore assoluto dei tracciati e delle proporzioni, nella serietà delle proposte, nella semplicità degli strumenti e nell’essenzialità dei gesti. Ne scaturisce un ulteriore proclama: anche le tecniche sono al servizio di un’idea: la conservazione di una sapienza, quella manuale, tradizionale, che è base certa per un’espressione autonoma e che vale come rivendicazione di una indipendenza da macchine ed elettronica, senza essere ignari delle tecnologie contemporanee. Oggi questo ha un particolare significato, nella pregnanza del messaggio si celano una sfida e un’ancora, seppure anacronistica, nella liquidità del sistema.
C’è da aggiungere inoltre che Maurizio, benché i propri lavori siano improntati a delicatezza, non è un tiepido, che, fatto di notevole rilevanza, le sue battaglie le affronta con entusiasmo e a viso aperto. La sua è una posizione politica che ha come progetto la salvaguardia della natura, anche visitata dalla storia, intesa proprio come il bene essenziale. E la sua arte – la sua vita dichiara questo.
Ci sono almeno due lavori, tra i molti presenti a Santa Giuliana, che parlano un linguaggio complesso e compiuto. L’occhio nel flauto, il solido di grandi dimensioni – uno sviluppo di 16 m per 70 cm di altezza – innalzato al livello della vista, si propone come un argine e un diaframma. L’istallazione è il corpo centrale e magnetico di tutta la mostra che manifesta una ragguardevole coerenza interna. Un microcosmo in cui sono racchiusi o squadernati i valori su cui poggiano le certezze dell’artista. Che si esprimono tramite il segno che traccia architetture, ricorda forme, cita capolavori: la convivenza del Partenone di Fidia, con La fontana di M. Duchamp, il Pantheon romano, il Guggenheim museum di F. L. Wright, i mosaici di Piazza Armerina, le composizioni di V. Vasarely. G. Alviani, C. Manuelli… allinea una sintesi della storia dell’uomo da quando è uscito dalle grotte per creare a se stesso e alle sue divinità un riparo. È la storia della cultura del fare, è lo specchio della weltanschauung attraverso i millenni, l’integrazione perpetua della creazione. Naturale sfondo delle architetture, un riflesso monocromo con contributi di colore appena accennati, con il blu che allude al cielo. È la barriera che garantisce con la sua esistenza la vittoria contro la barbarie: la disumanità che aggredisce la natura ne esce sconfitta in virtù della cultura che reagisce e sbaraglia il campo, ripristinando un ordine, quello esemplato dalla regolarità di un’urbanistica ideale: almeno nelle speranze.
Cecov e i papaveri rossi, un olio di 150 x 100, dall’intonazione cromatica audace e ben gestita, un ideale padiglione ospita un tavolo poligonale coperto da un drappo; il rosso è dominante, invade lo spazio come riverberato nell’atmosfera, all’esterno un paesaggio con colline e manufatti sui crinali: una sintesi di qualità che assomma vari significati. Si rivela costante, anche nelle invenzioni, il richiamo alle architetture classiche, quelle che stabiliscono i criteri fondamentali dell’estetica, i riferimenti, nell’occidente, della bellezza: l’armonia, l’equilibrio, la proporzione; Nell’apparente uniformità di linguaggio si colgono variazioni di impostazione e stilistiche che impreziosiscono. In Ecce anima mea, titolo evocatore, vediamo la riproposizione fantastica del monastero, che col colore vibrante smaterializza

Cecov... e i papaveri rossi, 2012
Olio su tela cm 100x160

le forme poderose, alterandone la percezione, ma non il senso; in Lettera allo stato (I gridi dell’anima) la vertigine dell’assemblaggio di moduli produce un mosaico o un mandala policromo, in cui le tessere o le particelle sono sostituite da impianti interconnessi; nell’imponente (3,70x4,30) I luoghi dei popoli la varietà di tecniche pittoriche dialoga con le profondità e le gamme cromatiche di colori ora saturi, ora squillanti. Non solo qui, ma in tutta la sua produzione, la figura umana – non la traccia dell’uomo – è assente. Spazi prestigiosi che non ospitano nessuno. È palesemente un messaggio che può essere variamente interpretato. Parrebbe un rifiuto della comunicazione, la sfiducia nell’umanità che viene tenuta lontana dalla storia e dalla geografia per scongiurare, esorcizzare, il pericolo che la minaccia dell’intervento dell’uomo comporta. Tutto plausibile, ma cozza con il fatto che i suoi animali, del gregge o della mandria, hanno nomi di amici: a mano a mano che nascono Maurizio Cancelli gli attribuisce il nome di una persona a lui cara. Stride soprattutto con la sua estroversione, la sua inclinazione al dialogo, la sua ospitalità. Singolare! Ci vedo invece un ottimismo reale, non cieco, ma ostinato, una fiducia, anche se non palesemente espressi e mi pare di poter leggere: conta senz’altro l’essere umano, ma sono le sue opere, concrete o di pensiero, che giungono fino a noi e si proiettano nel futuro. 

Enrico Sciamanna